Transazione negozio di accertamento ed errore. In particolare la transazione fondata su titolo nullo o su documenti falsi, su controversia già decisa da un precedente giudicato.

Riferimenti normativi: art. 1965 c.c., art. 1968 c.c., art. 1969 c.c., art. 1972 c.c., art. 1973 c.c., art. 1974 c.c., art. 1322 co II, art. 1323 c.c.

Il significato del termine transazione nell’Ordinamento giuridico contemporaneo (art. 1965 c.c.) non trova esatta corrispondenza nella tradizione romanistica. La nozione di transazione appare, infatti, costruita dalla giurisprudenza romana in funzione o di uno schema contrattuale causale o di una stipulatio, che figurano come strutture sincroniche di un’alternativa sempre ricorrente. La parola transigere esprime un fenomeno di grande importanza nelle strutture dei rapporti sociali di produzione del mondo antico a partire dal I secolo a.C.: quello dell’accordo mediante trattative che determina uno spostamento di ricchezze attraverso uno scambio di prestazioni. Il sostantivo transactio viene qualificato espressamente, per la prima volta nella storia della letteratura giuridica romana, come contractus (A. Schiavone).

Oggi la transazione, che rinviene il dato definitorio nell’art. 1965 c.c., postula sempre una lite attuale o potenziale ed è volta a realizzare la composizione della controversia su una linea compresa fra le rispettive azioni iniziali di pretesa e di contestazione. La transazione, quindi, rinviene il proprio presupposto in una situazione di incertezza ed, in tal senso, è assimilabile al c.d. negozio di accertamento la cui funzione è di attuare la composizione della lite o, meglio, di eliminare l’incertezza in tutti quei casi che non sono riconducibili entro lo schema della transazione. In questi termini il negozio di accertamento si presenta complementare rispetto alla transazione; queste due fattispecie si caratterizzano, infatti, per essere rivolte a comporre un conflitto sorto in ordine ad una situazione che è già regolata dalla legge e che, perciò, potrebbe, su istanza delle parti interessate, essere autoritativamente composto dal giudice. Il negozio di accertamento, tuttavia, a differenza della transazione, è una fattispecie atipica; risulta, pertanto, più complessa la ricostruzione della disciplina giuridica innanzi ai casi concreti che non possono essere risolti sulla base del mero dato definitorio. Si pensi al problema dell’errore nel negozio di accertamento che ancora oggi risulta irrisolto a causa della carenza di riferimenti normativi specifici che, invece, ricorrono nella transazione (art. 1969 c.c.).

La dottrina appare oggi divisa tra quanti sostengono che con la transazione e col negozio di accertamento le parti compongano la lite sostituendo una nuova situazione non litigiosa o certa a quella preesistente litigiosa o incerta e quanti, invece, sostengono che con entrambi questi contratti le parti compongano la lite nello stesso modo in cui la comporebbe un giudice e, cioè, che l’uno e l’altro siano dotati di efficacia dichiarativa. I prefati istituti, per i fautori della teoria dell’efficacia dispositiva, in realtà, sarebbero espressione della libertà di autodeterminazione delle parti. Questi, pertanto, non hanno, né potrebbero avere, la funzione di accertare la situazione preesistente così come fa la sentenza che è dotata, invece, di efficacia dichiarativa ed è vincolata dal giudizio. Il giudice, pertanto, é vincolato a comporre la lite nel modo “giusto” (Santoro Passarelli), mentre le parti sono libere nel determinare l’assetto dei loro interessi, senza che abbia alcun rilievo la questione della giustizia o dell’ingiustizia. I sostenitori dell’efficacia dichiarativa della transazione e del negozio di accertamento, invece, facendo leva proprio sulla libertà di autodeterminazione contrattuale, ritengono che, in realtà, anche le parti siano vincolate alla situazione preesistente. Per aversi una valida transazione, anzi, per aversi una transazione, infatti, sarà necessario non soltanto che fra le parti fosse sorta o fosse stata per sorgere una vera e propria lite, ma anche che in esse non vi fosse la consapevolezza di aver composto questa lite in guisa tale da modificare la situazione che ad essa preesisteva. In un caso, infatti, non si avrà transazione ma un normale negozio con natura modificativa, nell’altro il negozio avrebbe duplice natura: sarebbe negozio transattivo per la parte in cui gli stipulanti determinano consensualmente quale fosse la situazione preesistente alla lite, e negozio modificativo per la parte in cui immutano in uno dei modi tradizionali la situazione quale risulta dopo che la lite è composta (F. Della Rocca). Tale orientamento giunge a considerare la transazione come un contratto accessorio o ausiliare rispetto alla pregressa situazione. Sempre dalla pregressa situazione prende le mosse anche il negozio di accertamento, quale negozio con cui le parti prevedono di fissare, con efficacia dichiarativa tra loro vincolante, la situazione giuridica incerta, determinando l’esistenza o meno, il contenuto ed i limiti di un determinato rapporto giuridico (Diener). Si segnala, tuttavia, che autorevole dottrina ha negato l’ammissibilità di tale negozio nei seguenti termini: “Quale che sia questa fonte, negoziale o non negoziale, qualunque forma assuma, il negozio di accertamento non sfugge all’alternativa tra sostituzione parziale e sostituzione totale, o rinnovazione, del fatto da cui deriva ed è regolata la situazione giuridica esistente” (Santoro Passarelli). La dottrina prevalente, tuttavia, valorizzando l’autonomia privata, in funzione di autotutela, ritiene ammissibile tale negozio; le parti, infatti, possono, ex art. 1322 co. II c.c., “anche accertare una data situazione preesistente al fine di fissarne l’ambito e gli effetti senza tuttavia disporne, trattandosi non già di modificarla ma, appunto, di accertarla al fine di rimuovere uno stato di incertezza” (F. Gazzoni).

Dalla peculiare natura giuridica della transazione e del negozio di accertamento, derivano conseguenze dirompenti in termini di relativa disciplina giuridica con particolare riferimento al loro stato patologico. Nel caso di transazione su titolo nullo (art. 1972 c.c.) si distingue a seconda che la nullità derivi da illiceità dell’atto oppure da altra causa. In quest’ultima ipotesi, infatti, le parti potranno validamente concludere una transazione qualora abbiano trattato della questione della nullità; nell’altra ipotesi la nullità dell’atto si comunica, insanabilmente, al contratto di transazione.

Occorre innanzitutto notare che il rilievo della nullità del titolo base, diversificato nell’ambito dell’art. 1972 c.c., evidenzia come, anche la transazione, così come il negozio di accertamento, presenti un collegamento con un rapporto pregresso ed esterno ad esso. Il rapporto pregresso costituisce, cioè, la causa esterna della transazione, che pure ha una propria causa autonoma e interna. La relazione col rapporto pregresso determina anche una distinzione tra le varie fattispecie transattive. Si avrà, così, transazione semplice se la situazione base controversa viene solo modificata attraverso reciproche concessioni e rinunce; rimane qui vivo il collegamento col rapporto pregresso. La transazione novativa è, invece, quella che “per qualità e quantità dell’intervento rinnovatore, che include fatti e presupposti di fatto estranei al pregresso rapporto, ne determina la sostituzione integrale” (F. Gazzoni). Se, infine, con le reciproche concessioni si creano, modificano o estinguono “rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti” (art. 1965 co. I, c.c.), si ha transazione mista. Questo complesso meccanismo di collegamento negoziale spiega l’articolata disciplina in tema di nullità.

Tra le varie cause di nullità del titolo del negozio base, occorre, infatti, distinguere l’illiceità, regolata dal comma 1 dell’art. 1972, da tutte le altre, in base al disposto del comma 2. Mentre la prima, per la sua forza dirompente, è in grado di per sé di inficiare con la sanzione della nullità anche la transazione, pure se negozio esterno e autonomo dotato di una propria causa; le altre cause di nullità del titolo base, non comportano la nullità della transazione, ma si tramutano in una causa di annullabilità relativa, con una interversione del tipo di invalidità, che diventa fruibile solo per la parte incorsa in errore circa la validità del titolo originario.

Ciò, a parte il regime di legittimazione relativa, implica una modifica anche in punto di prescrizione, nonché di portata non retroattiva, ma ex nunc, dell’eventuale pronuncia costitutiva di annullamento.

Il veicolo dell’errore, sub specie di ignoranza circa la nullità del titolo, viene spiegato essenzialmente nel senso che la norma si applicherebbe in via privilegiata alla transazione novativa, cioè quella che, per la quantità e qualità dell’intervento rinnovatore, è in grado di rendere irrilevante, in quanto completamente superato dal nuovo assetto di interessi negoziale, il rapporto pregresso. Si avrebbe, cioè, una sorta di “astrazione della prima causa”, che si spinge fino al punto di sancire la validità e la vincolatività di una transazione raggiunta su un titolo della cui nullità entrambe le parti fossero a conoscenza. Per il rilievo della nullità della situazione giuridica pregressa, travolta e superata dall’accordo transattivo novativo, occorre, quindi, l’errore. In presenza dell’errore, infatti, non può dirsi correttamente formata la volontà negoziale transattiva, per cui non si è giunti all’idem placitum consensus sul punto controverso. Anche qui, come nell’art. 1969 c.c., siamo in presenza di un errore di diritto, che si atteggia, però, come errore di diritto riflesso, cioè che cade sull’elemento normativo costituito dalla validità del titolo pregresso. Che si tratti di un errore di diritto deriva dal fatto che “sotto l’aspetto della corretta formazione della volontà la legge va riguardata come un fatto giuridico, ogni qualvolta un soggetto si è indotto a contrarre ignorando una data situazione esterna configurata da una norma, sempre che essa abbia avuto un’incidenza diretta e immediata” (F. Gazzoni). Saremmo, insomma, al cospetto di un c.d. errore spontaneo, intendendosi per esso quello che si forma all’interno della psiche dell’individuo in base ad una falsa rappresentazione della realtà; che ha le sue cause nella stessa conformazione del soggetto e nella sua modalità percettiva del mondo esterno. L’errore indotto, invece, è quello che non ha una nascita autonoma dovuta alle peculiarità o alle concrete situazioni in cui si è venuto a trovare l’individuo, ma è quello che è frutto del raggiro altrui, attuato con l’ausilio di strumenti vari, aventi più o meno intensa idoneità ingannatoria. A questa categoria possono ascriversi le norme in tema di transazione su pretesa temeraria (art. 1971 c.c.) e quelle sull’annullabilità per falsità documentale (art. 1973 c.c.).

Orbene, se nel caso della transazione novativa il veicolo per il rilievo della nullità del titolo originario sub specie di annullabilità della transazione, è costituito dall’errore, nel caso della transazione semplice, poiché il contenuto del rapporto originario confluirebbe nel rapporto transatto, l’invalidità del titolo base renderebbe la transazione del tutto inutile. In questo caso la declaratoria della nullità del titolo base comporterebbe, in virtù di un meccanismo di invalidità derivata, l’automatica inutilità dell’accordo transattivo. “In questo modo, la nullità del rapporto fondamentale darà luogo, a seconda del diverso tipo di transazione, all’inesistenza della stessa, oppure, nel caso della transazione novativa, alla sua semplice annullabilità” (I. Picciano).

Secondo un’impostazione minoritaria, il campo di elezione dell’art. 1972, comma 2, c.c., sarebbe costituito proprio dalla transazione semplice, in quanto, nel caso di transazione novativa, il nuovo assetto negoziale fondato dalla transazione, spazzerebbe via la fonte originaria del rapporto, il quale, pertanto, risulterebbe estinto. Ciò comporterebbe l’assoluta irrilevanza delle vicende e dei vizi afferenti al titolo originario, proprio in quanto superato dall’accordo transattivo novativo.

Un ultimo orientamento in tema di nullità del titolo originario, sostiene, invece, l’inutilità di una distinzione in merito alla natura della transazione, se novativa o meno, in quanto ciò che rileverebbe sarebbe solo l’intervenuto errore sui presupposti che hanno condotto all’accordo transattivo. In questo senso, l’errore sulla nullità del titolo in base al quale è avvenuta la novazione non può distinguersi dall’errore sullo stesso che ha condotto ad una transazione semplice.

La peculiare natura giuridica della transazione si riflette, dunque, sulla disciplina specifica dell’errore che è uno degli aspetti più tipizzanti l’istituto in esame. Per espressa disposizione normativa, infatti, l’errore di diritto è irrilevante quando cada su questioni che hanno formato oggetto della lite (art. 1969 c.c.). E’ rilevante, invece, l’errore che cade sul rapporto non controverso, che le parti hanno costituito, modificato o estinto in occasione della composizione della lite, perché sia essenziale e riconoscibile. L’indagine sull’errore nella transazione si incentra sull’errore vizio, posto che l’errore ostativo conduce ad un’ipotesi di inesistenza della transazione stessa. In questo contesto si inquadra la summa divisio tra errore che cade sulla questione che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti e, cioè, sul c.d. caput controversum ed errore che cade sul caput non controversum. Quest’ultimo è l’errore che cade su una questione che, pur non avendo formato oggetto di controversia, sia stata implicitamente considerata dalle parti come presupposto di fatto o come premessa necessaria di quel loro accordo sì che, in difetto, esse non lo avrebbero stipulato. Si pensi, così, al caso di una lite sorta fra l’erede e un legatario a proposito della validità o dell’ammontare del legato che venga composta transattivamente. Presupposto dell’accordo è che esista un valido testamento che abbia disposto quel legato; se, in seguito, si accerti che il testamento è, invece, invalido o che era stato revocato dal testatore, la transazione potrà essere impugnata dall’erede. Sarebbe fuori luogo la distinzione tra errore sul caput controversum ed errore sul caput non controversum se si applicasse la disciplina generale dell’errore. Ma, invece, di errore nella transazione può parlarsi soltanto quando la falsa conoscenza riguardi i fatti o i rapporti controversi. Secondo un certo orientamento, infatti, l’errore su un caput non controversum integrerebbe un’ipotesi di mancanza di causa; secondo altro orientamento sarebbe più corretto parlare di mancanza di un presupposto (Betti). Secondo quest’ultima interpretazione ove la transazione venga impugnata per difetto di uno dei presupposti, a causa dell’errore sul caput non controversum, non sarebbe neanche corretto parlare di annullamento, tanto più che la risoluzione opererebbe con effetti ex nunc; il vizio in questo caso sarebbe, infatti, non già interno ma esterno al negozio. Tale tipo di errore, infine, rileva sempre, sia esso di fatto o di diritto, essenziale o non essenziale, riconoscibile o non riconoscibile, diversamente dall’errore sul caput controversum che ex art. 1969 c.c. rileva, invece, solo quando sia di fatto, essenziale e riconoscibile. Si pensi al caso di una transazione che taluno concluda sull’erroneo convincimento che vi sia una norma a sé sfavorevole e favorevole all’altra parte e che, perciò, sia per sè svantaggiosa. Questo è un caso di errore di diritto sul caput controversum e, pertanto, non rilevante anche quando possa provarsi che la parte non avrebbe concluso l’accordo se non fosse incorsa in tale errore. Secondo una certa dottrina l’irrilevanza dell’errore di diritto rappresenterebbe un fenomeno poco razionale dal punto di vista giuridico ed anzi l’art. 1969 c.c. rappresenterebbe “un’anomalia del sistema” che imporrebbe di “rassegnarsi a ripetere che stat pro ratione voluntas” (F. Carresi). La stessa dottrina, però, specifica che l’art. 1969 c.c. può essere compreso e giustificato alla luce della portata dell’art. 1965 c.c. che impone alle parti “reciproche concessioni”. Nella transazione, cioè, le parti prescindono dalla soluzione equitatativa della controversia e dall’esatta applicazione del diritto alla fattispecie controversa per accogliere una soluzione di compromesso. Se fosse possibile porre nel nulla la transazione per una non corretta impostazione dei termini della questione transatta, verrebbe meno la forza vincolante dello stesso accordo, contro il principio fissato dall’art. 1372 c.c. Si negherebbe, infatti, la funzione stessa della transazione, che è quella di superare la lite, e si avrebbe, invece, un regresso alla situazione precedente con la riapertura di una questione ormai superata.

Nel contratto di accertamento, invece, è rinvenibile una differente ratio; le parti, infatti, non vogliono raggiungere una soluzione di compromesso che sia il frutto di reciproche concessioni e parziali rinunce alla stretta applicazione del diritto come avviene nella transazione, bensì vogliono addivenire ad una soluzione quanto più corrispondente a quella originaria. In virtù di ciò si spiega la differente disciplina dell’errore che nel negozio di accertamento non giustifica l’applicazione dell’art. 1969 c.c.; sarà, pertanto, qui ammissibile anche l’impugnazione per errore di diritto quando risulti che l’errore sia la ragione unica o determinante del contratto. La disciplina generale dell’errore, rinvenibile nell’art. 1429 c.c., non è applicabile alle prefate ipotesi, in quanto concepita per disciplinare quelle ipotesi in cui l’errore incida su un contratto che determina un rapporto economico, ossia su un contratto latu sensu modificativo. Quando, invece, le parti compongono una lite, oggetto del contratto transattivo non è, come negli altri contratti, un bene od un servizio, ma è una res litigiosa; con tale fattispecie le parti vogliono porre fine ad una lite senza scioglierne i nodi. L’errore nella transazione è, quindi, “sempre e soltanto errore sui motivi di quella decisione che ciascuna delle parti implicitamente formula nell’atto in cui aderisce al regolamento transattivo” (F. Carresi). Detto errore incide su una situazione litigiosa e, pertanto, si discosta dall’errore vizio del consenso dei contratti in generale ed è, invece, assimilabile all’errore- vizio della motivazione della sentenza.

L’errore può anche cadere sul caput non controversum come disciplinato dagli artt. 1972 e 1975 c.c. Se si considera che la transazione ha ad oggetto una lite e che questa si fonda su un rapporto giuridico pregresso, si comprende come possa tale rapporto ripercuotersi sulla validità della transazione finale. Si considerino, per esempio, i casi in cui questo rapporto in concreto non esista perché è nullo o perché l’esistenza sia esclusa da una precedente sentenza passata in giudicato o, ancora, perché i documenti su cui si fondava la prova del fatto causativo del rapporto controverso siano falsi; entro certi limiti tali fatti possono incidere sulla susseguente transazione. Non incideranno sulla transazione né sul negozio di accertamento, perché non si avrà né l’una né l’altra fattispecie, a prescindere dalla qualificazione data dalle parti ai negozi, nel caso in cui le parti concordino nella nullità dell’atto o nel passaggio in giudicato della sentenza o nella falsità dei documenti. In questo caso, infatti, allorché ricorra un conflitto fra le parti, è chiaro che questo non potrà essere considerato seriamente come una lite ed allora la susseguente composizione del conflitto potrà, al più, essere considerata come un contratto modificativo.

Potrà, invece, aversi una valida transazione o un valido negozio di accertamento nel caso in cui le parti controvertano proprio sull’esistenza della causa di nullità che vizierebbe il fatto causativo (art. 1972 c.c.) o sul se si sia o meno determinato il giudicato o sul se i documenti siano o meno falsi. In questi casi la transazione è valida anche quando non rispecchi la situazione preesistente; la questione se il titolo sia o non sia nullo, se la cosa giudicata si sia o meno formata o se i documenti siano falsi o veri può, nei limiti di cui agli artt. 1968 e 1972 co. I c.c., formare oggetto di accertamento sia giudiziale che convenzionale. I due tipi di accertamento sono assimilabili anche negli effetti; in particolare il principio in virtù del quale la sentenza non è soggetta a revocazione per contrarietà ad una precedente pronuncia passata in giudicato, quando il giudice abbia pronunciato sull’eccezione di cosa giudicata (art. 395 n. 5 c.p.c.), vale anche per la transazione.

Se le parti, invece, ignorino l’esistenza della causa di nullità o l’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza o la falsità dei documenti, la transazione verrà ad esistenza ma sarà invalida, perché viziata da errore o, secondo altro orientamento, “per difetto di uno dei presupposti del negozio” (F. Carresi). La dottrina, inoltre, assimila l’ipotesi della transazione su cosa giudicata all’ipotesi della lite già composta con transazione (Santoro Passarelli); viene estesa anche a quest’ultimo caso l’applicazione dell’art. 1974 c.c.

E’ disciplinato diversamente, invece, l’errore che investe il caput non controversum nella transazione mista nel caso in cui investa i rapporti collegati a quello oggetto di contestazione, ma su cui non vi è lite, neanche potenziale, tra le parti. Per questi negozi collegati, infatti, non c’è ragione di derogare alla disciplina generale prevista dal Codice civile in materia di errore e, pertanto, l’errore sarà rilevante. Anche nel caso di errore ostativo non si avrà alcuna deroga alla disciplina generale in materia di errore. L’errore ostativo, infatti, non si colloca nell’ambito del processo motivazionale che ha condotto alla transazione, ma è esterno alla stessa, cadendo sulla sola dichiarazione, ex art. 1433 c.c. Anche questo rileva in base ai principi generali, pure se investa lo stesso caput controversum, in quanto la sua incidenza non è in grado di intaccare la funzione stessa dell’accordo intercorso tra le parti.

La disciplina dell’errore nella transazione non pare applicabile in via di interpretazione analogica anche al negozio di accertamento. Come visto, infatti, i due istituti, presentano certamente delle similitudini e dei punti di contatto, ma, altresì, delle divergenze che impongono di prescindere da aprioristiche soluzioni. Il problema della disciplina dell’errore nel negozio di accertamento va quindi risolto caso per caso. Se si optasse, così, per una piena applicazione dell’art. 1969 c.c. al negozio di accertamento, ne deriverebbe l’irrilevanza in ogni caso dell’errore. Ciò in quanto, mentre ha un senso la figura della transazione mista, in ragione del collegamento negoziale tra rapporti controversi e rapporti estranei alla res litigiosa, proprio per il profilo dispositivo del negozio giuridico; nel negozio di accertamento, la cui funzione è accertare, chiarire, proprio ciò che è incerto, dubbio, non sembra esservi spazio per un ipotetico negozio di accertamento misto.

Ha un senso accertare, infatti, solo quello che è incerto, e se tale non è, anche se collegato a negozi che presentano profili di dubbio, non residuano margini di utilità pratica per una tale figura negoziale. L’errore può, dunque, cadere solo sull’oggetto dell’accertamento, cioè l’incerto, il controverso: se si applicasse sempre l’art. 1969 c.c., l’errore non avrebbe mai rilievo nel negozio di accertamento, con il conseguente effetto di vincolare le parti ad una rappresentazione falsata dei loro interessi e con la correlativa non deducibilità in giudizio. Altra impostazione propende, invece, per un’applicazione supina delle norme della transazione in materia, non dando rilievo ai profili problematici sopra evidenziati. In realtà la teoria dell’applicazione analogica della disciplina della transazione anche al negozio di accertamento può, più agevolmente, comprendersi con esclusivo riferimento alla transazione semplice. In quest’ultima, infatti, sono palesi le analogie con il negozio di accertamento in specie se si pensi al rapporto con la situazione pregressa; nella transazione semplice, insomma, rimane integro e visibile il collegamento con la situazione pregressa. In virtù di ciò il negozio di accertamento su titolo nullo sarebbe anch’esso nullo o, come anche ipotizzato, inesistente. Nel caso, invece, dell’annullabilità del rapporto pregresso, il negozio di accertamento stipulato successivamente e con la consapevolezza dell’invalidità del titolo originario, varrebbe come convalida ex art. 1444 c.c. Tale soluzione, però, implicherebbe l’attribuzione al negozio di accertamento di un profilo dispositivo solitamente negato. Quest’ultima fattispecie, peraltro, si porrebbe al di fuori della problematica dell’errore, posto che, nell’esempio citato, i contraenti sono consapevoli dell’invalidità del rapporto pregresso.

Se si accoglie la teoria che nega l’interpretazione analogica della normativa in materia di transazione, si presentano due diverse alternative per colmare il vuoto di disciplina che in tal modo si crea. La prima postula, in base all’art. 1323 c.c., l’applicazione della disciplina generale sui contratti, con la conseguente rilevanza dell’errore solo se essenziale e riconoscibile. L’altra, ragionando sui meccanismi operativi e sulla ratio del negozio di accertamento, arriva ad un’altra operazione ermeneutica fondata sull’analogia legis; sul presupposto che con l’accertamento si creano due fonti concorrenti di regolamentazione di un’unica situazione giuridica, si è accostata la figura del negozio di accertamento alla ricognizione negoziale, consistente nel mero accertamento circa l’esistenza e il contenuto di un precedente contratto. In ciò questo negozio avrebbe la funzione tipicamente probatoria propria dell’art. 2720 c.c. In questo modo, l’atto di ricognizione farà piena prova delle dichiarazioni contenute nel documento originale, salvo il caso in cui questo sia frutto di errore. L’errore, però, dovrà essere provato producendo il documento originale; in caso contrario, infatti, il rapporto tra il negozio di primo grado ed il negozio di secondo grado di ricognizione si risolve nel senso della prevalenza di quest’ultimo. La correttezza di questa impostazione sarebbe provata anche dalla norma che, in tema di confessione, dà rilievo, come motivo di revoca della stessa, all’errore di fatto (art. 2732 c.c.).

Il negozio di accertamento volto ad acclarare il contenuto, l’estensione e la portata di un rapporto pregresso incerto evoca il fenomeno della rinnovazione negoziale che scaturisce dalla nullità del precedente contratto. La rinnovazione del negozio nullo consiste nel compimento ex novo del negozio e non nella reiterazione del medesimo; è composta da due vicende: quella abrogativa dell’atto nullo e quella costitutiva di una corrispondente e valida regolamentazione di interessi ove il quid novi è rappresentato dalla sola eliminazione della causa di nullità. La giurisprudenza, infatti, ammette che le parti, nell’esercizio della loro libertà contrattuale, possano trasfondere il contenuto del contratto nullo in un altro che sia pienamente valido ed efficace, previa rimozione delle cause di nullità del primo contratto e che possano anche stabilire che il nuovo negozio abbia efficacia dalla data del primo. La rinnovazione importa la creazione di un nuovo negozio che essendo identico al primo come contenuto, è destinato, per l’incompatibilità derivante dalla contemporanea sussistenza di due fonti negoziali simili, a sostituirsi al primo in posizione ed in funzione autonoma. Si è posto il problema del se la rinnovazione comporti mero accertamento extragiudiziale della nullità del primo negozio od, invece, volontà diretta alla eliminazione del medesimo. Secondo un certo orientamento occorrerebbe prescindere da una presunta, anche tacita, volontà abrogativa e scorgere, invece, nell’oggettiva incompatibilità dei due negozi la soluzione determinate l’effetto sostitutivo della fonte negoziale. Dopo tale vicenda sarà impossibile far valere l’invalidità del titolo originario.

Per quanto riguarda, invece, il negozio di accertamento fondato su documenti falsi o avente ad oggetto una precedente controversia già decisa da un precedente giudicato, sarebbero applicabili a queste fattispecie, in via analogica, le disposizioni sulla transazione di cui agli artt. 1973 e 1974 c.c. in quanto sarebbero in larga parte conformi alla disciplina generale sui contratti. Nel caso specifico dell’accertamento e della transazione su documenti falsi, pertanto, l’errore indotto dall’altrui inganno determinerà l’annullabilità. La disciplina codicistica, invero, qui non distingue tra dolo determinante e dolo incidente come accade nelle disposizioni generali di cui agli artt. 1439 e 1440 c.c. Non sarà applicabile, perciò, alla transazione ed al negozio di accertamento la distinzione tra le ipotesi di annullamento del contratto (dolo determinante) e le ipotesi di mero risarcimento del danno senza annullamento del contratto (dolo incidente). Saranno, quindi, sempre annullabili, nelle ipotesi citate, la transazione ed il negozio di accertamento.