Il permesso di costruire e le opere contingenti e temporanee a seguito della novella dell’art. 6, co. 1, lett. e)-bis T.U. edilizia. Il legislatore ha voluto differenziare il regime giuridico delle opere stagionali?
In forza dell’art. 6, co. 1, lett. e) bis del D.P.R. 380/2001 le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee, ove siano destinate ad essere rimosse entro un termine massimo di 180 gg., non richiedono permesso di costruire e rientrano nell’attività edilizia libera. Il riposizionamento del manufatto ogni anno per la durata massima consentita, ancorché autorizzato dal Comune, non può, tuttavia, essere considerato legittimo in assenza del previo ottenimento del permesso di costruire. L’opera, infatti, non appare più come occasionale ovvero contingente e temporanea, bensì si rileva come ripetitiva e costante. Le opere stagionali, invece, in forza della novella di cui alla legge n. 120/2020, non richiederebbero la necessaria verifica della loro contingenza ed occasionalità. Tale conclusione sarebbe, però, illogica ed irragionevole, posto che la ratio del regime giuridico dell’attività edilizia libera valorizza l’occasionalità dei manufatti cui corrisponde il mancato incremento del carico urbanistico. È, pertanto, doveroso domandarsi se la norma citata possa essere invocata in maniera strumentale ed abusiva per aggirare la normativa che prescriverebbe la necessarietà del permesso di costruire o se il legislatore abbia introdotto per le opere stagionali un regime giuridico differente.
Premessa
Le opere contingenti e temporanee di cui all’art. 6, co. 1, lett. e) bis del D.P.R. 380/2001 rientrano nell’attività edilizia libera, perché il legislatore tutela la libertà di iniziativa individuale in ragione del fatto che i fabbricati oggetto della prefata norma non arrecano uno stabile incremento del carico urbanistico. Non vi è motivo, pertanto, di sottoporre a vincoli stringenti e controlli serrati l’attività del privato. Quest’ultima, nel moderno ordinamento a connotazione liberale, non può essere limitata se non in virtù della tutela di beni giuridici di rilevanza ultra-individuale. In tal senso si comprende l’opposta disciplina prevista per l’edificazione di nuove opere che, in maniera fisiologica, arrecano un perdurante incremento del carico urbanistico e che, per ciò solo, giustificano la necessarietà del permesso di costruire. I controlli pubblicistici sono, ordunque, tanto più necessari quanto più rilevi la possibile compressione di beni giuridici di rilievo meta- individuale.
I privati, di fatto, hanno spesso abusato della normativa in oggetto facendo leva sulla sua scarsa chiarezza e sulle sue involontarie lacune per giustificare l’apposizione di manufatti rivelatisi non precari o, comunque, per la reiterazione costante di opere amovibili. Il punto debole della normativa, sfruttato dai privati, è rappresentato dal requisito della necessaria temporaneità di dette opere. Accade, così, che i fabbricati vengano posizionati su una determinata aerea, che il privato usufruisca del termine massimo di durata consentita (180 giorni) prima di provvedere alla loro rimozione e che poi, l’anno seguente, riposizioni il medesimo fabbricato per la stessa durata e che ripeta l’identica operazione negli anni ancora susseguenti. Altre volte, invece, viene invocata la precarietà della struttura sottacendo la sua fisiologica destinazione alla permanenza stabile. In tal modo il privato realizza un’opera che è amovibile e che, all’apparenza, è temporanea e che, pertanto, in maniera legittima, sembra rientrare nell’attività edilizia libera di cui alla disposizione normativa in rassegna. Quest’ultima, tuttavia, va letta nel suo complesso per smascherare letture capziose che, nella sostanza, vogliano legittimare la continua persistenza dell’opera in essenza del permesso di costruire e ad aggravio del carico urbanistico.
Orbene, negli stessi termini andrebbero decodificate anche le opere stagionali oggi espressamente menzionate fra le attività di edilizia libera. Se, infatti, come si vedrà infra, l’interprete evidenzia l’incremento del carico urbanistico nella reiterazione costante delle opere per assoggettarle a permesso di costruire, non pare vi siano ragioni per derogare a tale approdo ermeneutico solo perché le opere vengano qualificate come stagionali.
A tal uopo la giurisprudenza (penale ed amministrativa) valorizza la lettura sistematica dell’art. 6, co. 1 lett. e) bis in combinato disposto con l’art. 3, co. 1, lett. e.5) del D.P.R. n. 380 del 2001, ponendo particolare attenzione ai requisiti della contingenza e dell’occasionalità come elementi giustificativi del regime liberale disciplinante la procedura amministrativa edilizia.
Il potere amministrativo nell’attività edilizia
Prima di addentrarsi nella tematica specifica delle opere contingenti e temporanee è necessario collocare la normativa di riferimento nell’ambito dell’assetto giuridico globale delle procedure amministrative edilizie.
Orbene, l’attività edilizia libera rappresenta, nello specifico ambito di riferimento, la massima espressione della libertà di iniziativa individuale e, infatti, non è sottoposta al preventivo rilascio di provvedimenti amministrativi. Essa è disciplinata dall’art. 6 T.U. edilizia che richiama l’articolo 3, comma 1, lettera a) dello stesso D.P.R. 380/2001. La norma prevede che gli interventi descritti di manutenzione ordinaria possano essere eseguiti senza alcun permesso o autorizzazione di alcun tipo. L’attività edilizia libera, pertanto, non è sottoposta al vincolo del previo ottenimento di un qualunque assenso pubblicistico ed è “proiezione di una facoltà che discende direttamente e senza mediazioni amministrative dal diritto di proprietà”[1]. In questo caso, infatti, non vi sono contrapposti interessi da tutelare: né interessi dei terzi, né interessi della collettività. Sono, invece, interventi tutti accomunati dalla mancanza di un sensibile aggravio del carico urbanistico[2].
Ad un livello più pervasivo di controlli si pongono le attività edilizie non libere, ma liberalizzate. Tali attività, concepite come oggetto di semplificazione ad effetto liberalizzante[3], sono connotate da una prima fase ad iniziativa libera del privato che è onerato solo di dare comunicazione dell’attività intrapresa cui fa da contraltare la successiva fase di controllo della P.A. Alla obbligatoria comunicazione del privato segue, così, il controllo della P.A. non eventuale, ma doveroso[4].
In tale contesto si inquadra la S.C.I.A. che riguarda gli interventi di cui all’art. 22 T.U. edilizia. La S.C.I.A. edilizia richiama la S.C.I.A. di cui all’art. 19, L. 241/1990; il richiamo integrale a tale ultima norma induce a ritenere, ai sensi del co. 6 ter dell’art. 19, L. 241/1990 che la S.C.I.A. abbia natura privatistica. La fase pubblicistica si realizza col controllo successivo e doveroso della P.A. che può concludersi con l’adozione del provvedimento repressivo o inibitorio dell’attività intrapresa o da intraprendere a seguito di S.C.I.A.
La C.I.L.A. (Comunicazione Asseverata Inizio Lavori), invece, è prevista, in via residuale, per le attività che non siano ricomprese nell’attività edilizia libera e che non siano assoggettate a S.C.I.A. o che non debbano essere sottoposte a permesso di costruire.
La C.I.L.A. si differenzia dalla S.C.I.A., perché, secondo il Consiglio di Stato[5], in essa il controllo successivo della P.A. non è sistematico. La C.I.L.A., insomma, di per sé, non determinerebbe in capo alla P.A. un obbligo di verifica della conformità dell’opera comunicata. Ciò è tanto più vero se si pensa che la mancata comunicazione comporta solo una sanzione pecuniaria e non, come accade nel caso della mancanza di S.C.I.A., l’adozione del provvedimento repressivo o inibitorio. In guisa di ciò la C.I.L.A., a differenza della S.C.I.A., non sarebbe neanche un titolo edilizio e la comunicazione avrebbe mero effetto dichiarativo e sarebbe finalizzata a facilitare il controllo della P.A.[6]. Il privato interessato non potrebbe nemmeno invocare l’azione ex art. 31 commi 1, 2 e 3 c.p.a. richiamata dall’art. 19 co. 6 ter, L. 241/1990. Se è vero, infatti, che non vi è un obbligo di attivarsi in capo alla P.A., è anche vero che la P.A. non ha un obbligo di concludere alcun procedimento con provvedimento espresso.
La C.I.L.A., infine, si differenzia anche dalla C.I.L. (Comunicazione Inizio Lavori). In quest’ultima, infatti, manca la necessaria asseverazione del tecnico incaricato. Ha, quindi, un regime più liberale per il privato. Si segnala, tuttavia, che la C.I.L. è scomparsa per effetto dell’abrogazione del comma 2, art. 6, T.U. edilizia, avvenuta per effetto del c.d. decreto Scia-2. Essa era prevista per interventi temporanei ed esterni all’edificio. Sussiste, tuttavia, l’obbligo di comunicazione avvio lavori per le opere di cui all’art. 6, co. 1, lett. e-bis T.U. edilizia, dirette a soddisfare esigenze contingenti e temporanee.
La presenza più pervasiva del potere amministrativo sull’attività edilizia privata si ha nel caso del permesso di costruire. È bene precisare che, tuttavia, non si tratta di attività amministrativa discrezionale, perché al ricorrere dei presupposti di legge il privato ha il diritto di ottenere il permesso di costruire e la pubblica amministrazione deve adottare il relativo provvedimento. Si tratta, purtuttavia, di un provvedimento amministrativo necessario per intraprendere l’attività edilizia che altrimenti sarebbe vietata. Per questo motivo l’attività edilizia soggetta a permesso di costruire non rientra nella liberalizzazione e non contempla alcuna forma di semplificazione. Essa riguarda gli “interventi di nuova costruzione di cui all’art. 3, co. 1, lett. e), T.U. edilizia e gli interventi descritti dall’art. 10 del medesimo T.U. Gli interventi in questione sono quelli più invasivi, che comportano un sicuro aumento del carico urbanistico ed una possibile lesione dei diritti o interessi dei privati vicini. Le opere sottoposte a permesso di costruire, infatti, comportano aumento di volumetrie e realizzazione di nuovi manufatti. Per questo motivo l’attività di tal fatta è subordinata al rilascio del permesso di costruire. La P.A., infatti, sarà qui tenuta ad un controllo preventivo e precedente alla realizzazione dell’opera; dovrà vagliare la ricorrenza di tutti i presupposti per l’adozione del permesso e, più in generale, la conformità dell’opera alle disposizioni in materia urbanistica. È netta, quindi, la differenza rispetto all’attività di semplificazione ad effetto liberalizzante ove il controllo è successivo all’inizio dell’attività. In tal modo sarà differente anche la tutela accordata al terzo leso dall’attività edilizia del vicino.
Tutti i tipi di interventi su descritti, infine, sono accomunati dall’egida del controllo urbanistico senza limitazioni temporali ai sensi dell’art. 27 T.U. edilizia. In presenza di un intervento abusivo, pertanto, la P.A. deve sempre attivarsi anche al fine di scongiurare l’integrazione del reato di cui all’art. 328 c.p.
La tutela del terzo leso dall’abuso edilizio
In un’ottica di completezza della tematica trattata non possono sottacersi i profili applicativi con specifico riferimento alla tutela del terzo pregiudicato dall’attività edilizia abusiva.
Ebbene, l’intervento edilizio eseguito dal privato può cagionare un pregiudizio reale o potenziale ai terzi. Non tutti i terzi, però, possono agire in giudizio per tutelare le proprie ragioni. Sono, infatti, legittimati ad agire in giudizio solo coloro che vantino una relazione qualificata con l’opera ritenuta abusiva. Tale posizione differenziata richiede la c.d. vicinitas.
Il concetto di vicinitasè piuttosto ricorrente in materia di illeciti urbanistici. La portata estensiva del concetto che evoca la vicinanza del terzo all’opera realizzata è, tuttavia, oggetto di molteplici ed eterogenee interpretazioni. Si parte da una concezione più restrittiva che riconosce l’interesse qualificato e differenziato in capo al frontista dell’opera abusiva, per arrivare ad una ricostruzione più estensiva che si identifica coll’”interesse di zona” degli operatori economici che intendano contrastare un titolo edilizio a cui si accompagni una contestuale autorizzazione di natura commerciale[7]. Al di là della portata più o meno ampia del concetto della vicinitas, non si può dubitare del fatto che non esista un interesse legittimo fondato sull’interesse generico alla legalità della pianificazione urbanistica. Il Consiglio di Stato, d’altronde, con riferimento all’art. 31, co. 9, L. n. 1150/1942, ha precisato come la norma non possa affatto riconoscere una sorta di azione popolare in materia, dovendosi sempre ricercare l’interesse ad agire nella specifica relazione qualificata coll’intervento assentito[8].
L’interesse legittimo nella materia in disamina, appunto, presuppone sempre la vicinitas, ma non sempre la vicinitas è sufficiente a fondare una posizione differenziata tutelabile in giudizio. Quest’ultima può, infatti, fare capo solo al privato che possa essere danneggiato, in concreto, dall’opera edificata dal terzo o dal relativo provvedimento autorizzatorio.
Orbene, secondo una certa corrente di pensiero la vicinitas sarebbe di per sé probante del danno patito dal privato in seguito all’edificazione del vicino[9]. Secondo tale interpretazione sarebbe sufficiente la dimostrazione di uno stabile collegamento materiale del ricorrente con il suolo ove si realizzano i lavori, escludendosi, in linea di principio, la necessità di dare dimostrazione di un pregiudizio specifico e ulteriore. Il Consiglio di Stato, infatti, ha ritenuto sussistente il pregiudizio in re ipsa. Esso sarebbe dato dalla “maggiore tropizzazzione (traffico, rumore), dalla minore qualità panoramica, ambientale, paesaggistica e dalla possibile diminuzione di valore dell’immobile”[10]. Il termine “tropizzazione” viene poi spiegato con riferimenti che alludono all’aumento del carico urbanistico. La nuova costruzione, perciò, recherebbe in sé e per sé un pregiudizio a tutti i vicini e, secondo la dottrina meno restrittiva, a tutti gli abitanti del comparto urbanistico interessato dall’intervento. Altra giurisprudenza richiede un onere probatorio sul danno solo in caso di scelte pianificatorie da parte della P.A., ma non nel caso dell’impugnativa dei titoli edilizi[11].
Attenta dottrina ha sottolineato, tuttavia, l’indubbia indeterminatezza insita nel concetto di vicinitas[12]. In virtù di ciò, un’altra interpretazione giurisprudenziale ritiene che l’ammissibilità dell’azione non possa prescindere dall’apprezzamento del pregiudizio, quanto meno potenziale, patito dal vicino a seguito della nuova edificazione[13].
È chiaro come non si possa pretendere che il vicino fornisca una prova certa del danno, pena l’elusione della tutela del terzo e la vanificazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. Il danno, anche secondo la teoria più restrittiva, dovrebbe risultare quanto meno verosimile ed allegato agli atti. Alla stregua di tale interpretazione ponderata sarebbe inammissibile il ricorso che non contenesse alcun riferimento al prefato pregiudizio e che si fondasse solo sulla vicinitas.
Se si considera, però, che la creazione di nuove volumetrie provoca l’aumento del carico urbanistico, che evoca la su menzionata “maggiore tropizzazione”, è agevole riscontrare la posizione differenziata in capo al proprietario dell’immobile direttamente confinante con la nuova opera. È lecito, insomma, chiedere una tanto maggiore argomentazione, in termini di pregiudizio potenziale, quanto maggiore sarà la distanza dall’opera abusiva.
Per comprendere tale deduzione occorre decodificare il significato di carico urbanistico. Esso non è mai definito dal legislatore, ma è un concetto di matrice giurisprudenziale. Viene invocato sia in materia penale, per rinvenire la sussistenza del periculum in mora nei sequestri preventivi di immobili abusivi[14], sia in ambito amministrativo per giustificare provvedimenti repressivi di riduzione in pristino.
Orbene, “La nozione di carico urbanistico deriva dall’osservazione che ogni insediamento umano è costituito da un elemento c.d. primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in genere, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, etc.) che deve essere proporzionato all’insediamento primario”[15]. È chiaro, pertanto, come una nuova opera, che crei aumento di volumetria, possa determinare la sperequazione del rapporto tra l’elemento primario e quello secondario. Se si crea un nuovo insediamento abitativo si realizza, infatti, un aggravio del peso urbanistico che incide sul comparto di riferimento. La creazione di nuovi fabbricati determina, perciò, allo stato potenziale, un maggiore sfruttamento del comparto urbanistico, in considerazione del fatto che si verifica un incremento di richiesta di servizi a favore di coloro che sfruttano il nuovo insediamento.
Opere contingenti e temporanee: gli elementi sintomatici
Si può ora approfondire la tematica specifica in rassegna osservando che tra le opere che non creano aumento di carico urbanistico rientrano appunto le opere contingenti e temporanee di cui all’art. 6, co. 1, lett. e) bis dpr 380/2001. Per questo motivo la norma citata prescrive che le stesse possano eseguirsi con semplice comunicazione sulla scorta della loro riconduzione all’attività edilizia libera. È chiaro, quindi, come siffatto regime liberale sia particolarmente appetibile per il privato che può, così, evitare le lungaggini ed i controlli preventivi che sottostanno al permesso di costruire richiesto, invece, per le opere stabili. Il tratto distintivo caratterizzante è, pertanto, rappresentato dalla precarietà e temporaneità o meno dell’opera cui corrisponde l’aumento o meno del carico urbanistico che, a sua volta, rispettivamente giustifica o non giustifica la necessarietà del previo rilascio del permesso di costruire.
Da altro lato l’istituto liberale di cui all’art. 6, co. 1, lett. e) bis dpr 380/2001 si presta a fruizioni speculative o abusive ad opera del privato interessato che voglia, in maniera illegittima, ovviare al necessario previo ottenimento del permesso di costruire. Rileva, infatti, la mancanza di una tassativa elencazione dei casi di opere precarie che possano rientrare nell’istituto de quo. È allora possibile che il privato possa sfruttare la mancanza di chiarezza del dato normativo per contrabbandare un’opera come precaria quando, invece, è stabile e definitiva. È chiaro che il riferimento è a quei casi ambigui in cui non si può affermare in maniera certa e perentoria che un’opera sia stabile e definitiva. Nella prassi le ipotesi dubbie hanno riguardato soprattutto le terrazze ed i dehor che accedono ad attività commerciali volte solitamente alla somministrazione di cibi e di bevande (bar e ristoranti). Queste strutture accessorie hanno il precipuo scopo di aumentare i posti a sedere per gli avventori del locale al fine di incrementare il profitto del loro titolare.
In tali casi il privato invoca la precarietà dell’opera per realizzare il manufatto in assenza di permesso di costruire. Spesso, in virtù dell’ambiguità di fondo della fattispecie, ricorre anche la connivenza o complicità dei tecnici dell’Ufficio Tecnico comunale nonché la compartecipazione attiva ed interessata del professionista incaricato dal privato per la realizzazione del progetto. Il progettista, infatti, in un’ottica egoistico-lucrativa ha tutto l’interesse a realizzare l’opera. Si consideri, peraltro, che i vari tecnici, comunali e privati, corrono ben pochi rischi di incorrere nei reati di cui all’art. 44 T.U. edilizia, potendo gli stessi andare esenti da qualsiasi imputazione in ragione della oscurità del dato letterale della norma di cui all’art. 6, co. 1, lett. e) bis dpr 380/2001[16].
Per questi motivi i centri urbani brulicano di opere spacciate come temporanee che deturpano l’ambiente ed incrementano il carico urbanistico. Opere che, verosimilmente, non potrebbero mai ricevere il previo rilascio del permesso di costruire.
Al cospetto di siffatta pessima prassi la giurisprudenza, penale ed amministrativa, ha dovuto chiarire il concetto di precarietà e temporaneità. Si evidenzia, fin da subito, che secondo il diritto vivente l’indagine va compiuta sull’opera nella sua intrinseca oggettività e non già sulla soggettiva destinazione voluta dal privato. Altro spunto ermeneutico riguarda la constatazione che i manufatti preposti al servizio di locali commerciali hanno una vocazione lucrativa che denota una fisiologica inidoneità all’appagamento di esigenze contingenti e temporanee. È chiaro, infatti, che simili strutture vengono impiantate per rafforzare, in maniera stabile, la capacità lucrativa dei locali commerciali onde pare incongruo riscontrare la loro precarietà. È stato detto, più precisamente che “In materia edilizia, al fine di ritenere sottratta al preventivo rilascio del permesso di costruire la realizzazione di un manufatto, può assumere rilevanza la precarietà dello stesso, che non può essere però desunta dal suo carattere stagionale, ma deve ricollegarsi – a mente di quanto previsto dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 6,comma2, lett. b), come emendato dal D.L. 25 marzo 2010, n. 40, art. 5, comma 1, (convertito, con modificazioni, dalla L. n. 73 del 2010) – alla circostanza che l’opera sia intrinsecamente destinata a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee, e ad essere immediatamente rimossa al venir meno di tale funzione”[17].
La funzione oggettiva cui l’opera è destinata rappresenta, pertanto, un criterio di giudizio certo per stabilire se occorra o meno il permesso di costruire[18]. Il Consiglio di Stato in tale ottica valorizza, altresì, l’interesse finale[19] cui è preposto il manufatto e l’eventuale svolgimento di attività commerciale, evidenziando “il carattere ontologicamente ‘non temporaneo’ di una struttura destinata all’esercizio di un’attività commerciale e di somministrazione”[20].
Si consideri, infine, che l’art. 6, co. 1, lett. e) bis dpr 380/2001 richiede non solo il requisito della precarietà dell’opera, ma anche quello della sua destinazione alla realizzazione di un determinato evento con conseguente obbligo di rimozione al cessare dello stesso. L’opera dovrebbe cioè essere precaria non solo dal punto di vista strutturale, ma anche sotto l’aspetto temporale. Quest’ultimo, quindi, richiede che la comunicazione inoltrata dal privato indichi espressamente l’evento che si intende invocare a supporto della procedura.
Non si comprende, pertanto, come possano essere considerate legittime, in assenza di permesso di costruire, quelle strutture volte all’incremento dei posti a sedere nei locali adibiti alla somministrazione di cibo e di bevande. Non pare, infatti, rinvenibile alcuna giustificazione specifica in relazione ad un determinato evento che possa legittimare la procedura della comunicazione in luogo del previo ottenimento del permesso di costruire. Appare, invece, che siffatte strutture siano carenti di motivazione sul punto e che siano fisiologicamente improntate a finalità non specifiche, né contingenti od occasionali.
Le opere stagionali
Tra le opere soggette a comunicazione rientrano i “manufatti stagionali”. Tali opere si identificano con i manufatti precari che vengono posizionati sul suolo per un periodo limitato nel tempo coincidente con una intera stagione. Le strutture di tal fatta sono solitamente adoperate per finalità contingenti in quanto sono preposte alla fruizione da parte dei turisti in un determinato periodo dell’anno; dopo la cessazione della stagione turistica i manufatti vengono agevolmente rimossi. Essi possono consistere in chioschi o gazebi collocati sovente in aree sottoposte a vincolo paesaggistico; in prossimità del mare, di laghi, in montagna o in foreste o in aree ove non è, comunque, possibile l’edificazione. L’interessato, pertanto, non potrebbe mai ottenere il permesso di costruire per impiantare un’opera stabile onde la possibilità di realizzare una struttura ricettiva per le persone, o idonea al deposito di cose, può essere inverata tramite la procedura di comunicazione per le opere stagionali di cui all’art. 6, co. 1, lett. e)-bis del D.P.R. 380/2001.
I manufatti in oggetto rientrano nell’attività edilizia libera di cui alla norma testé citata ed in essa sono oggi espressamente richiamati. Il decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, recante misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale, convertito in legge n. 120/2020 ha, infatti, inserito espressamente nel prefato testo normativo le “opere stagionali”. La novella ha, fra l’altro, anche raddoppiato il termine massimo di permanenza della struttura portandolo a centottanta giorni. È stato anche chiarito che il termine è comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto.
Il legislatore, pertanto, ha fugato i dubbi interpretativi in ordine alla decorrenza del calcolo del citato termine. Quest’ultimo, invero, secondo l’interpretazione prevalente, era già inteso come comprensivo anche dei tempi di allestimento, ma, in assenza di dato normativo espresso, molti uffici tecnici comunali legittimavano la decorrenza del termine dal momento della fine dei lavori. L’intervento legislativo appare in tal senso chiarificatore.
È dubbia, invece, l’utilità dell’inclusione espressa delle opere stagionali fra le attività libere che richiedono una mera comunicazione all’autorità comunale. È chiaro, infatti, che le opere in oggetto venivano già ricomprese nella disciplina citata. Esse, più precisamente, erano attratte sotto l’egida dell’art. 6, co. 1, lett. e)-bis del D.P.R. 380/2001, in quanto si consideravano pur sempre amovibili e temporanee ed idonee ad essere rimosse allo scadere delle relative esigenze su cui si fondava la comunicazione. È d’uopo allora domandarsi in che modo possa rilevare in senso innovativo la dizione testuale “opere stagionali” se queste comunque possono essere incluse tra “quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, purché’ destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità”.
Ora, se si osserva che la norma in esame adopera la congiunzione “e” subito dopo la locuzione “opere stagionali” pare che il legislatore abbia voluto differenziare le due ipotesi. Nell’intento di rinvenire una logica a tale differenziazione si può rilevare che per le opere stagionali non sarebbe necessario dimostrare le obiettive esigenze contingenti e temporanee, dimostrazione che, invece, sarebbe richiesta per tutte le altre opere che non siano stagionali e che comunque si vogliano far rientrare nell’attività edilizia soggetta a comunicazione. In tal senso il legislatore avrebbe voluto chiarire che le opere stagionali rientrano, senza più margini di dubbio, nell’attività edilizia libera ed avrebbe voluto così attribuire all’interessato un regime giuridico più garantistico al riparo da censure eventuali sulla precarietà dell’opera o sulle esigenze contingenti e temporanee che giustificano la stessa.
Alla stregua dell’interpretazione resa dal Consiglio di Stato prima dell’avvento della novella del luglio 2020, infatti, precarietà e stagionalità non sono concetti sovrapponibili e la stagionalità, a sua volta, “non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo”[21]. Secondo questa interpretazione, pertanto, non basta che l’opera sia considerata stagionale per essere assoggettata al regime dell’attività edilizia libera sottoposta a comunicazione, perché occorre dimostrare che il manufatto è anche precario e destinato al soddisfacimento di esigenze contingenti e temporanee. Ecco che, allora, è possibile rinvenire un significato nella novella normativa nella misura in cui l’accertamento della stagionalità dell’opera dispensa l’interprete da qualsiasi altra valutazione in merito agli altri requisiti elencati che, invece, oggi riguarderebbero solo tutte le altre opere che non possano essere considerate stagionali.
Tale lettura, tuttavia, non convince, perché la ratio della disciplina liberale di cui all’art. 6, co. 1, lett. e) bis del D.P.R. 380/2001 è volta ad agevolare il privato a condizione che le opere non arrechino un incremento del carico urbanistico. Solo le opere precarie ed occasionali possono rispettare il prefato requisito.
Interpretare la novità normativa come deroga al descritto regime giuridico significa, pertanto, contraddire la ratio stessa della norma e violare il principio di ragionevolezza razionalità. Quest’ultimo, ai sensi dell’art. 3 Cost., impone di trattare in maniera identica le varie ipotesi che non mostrino alcuna differenza tra di esse. Nel caso di specie, pertanto, un trattamento diverso sarebbe ingiustificato.
Le opere stagionali, infatti, al pari delle altre descritte dalla norma in commento, potrebbero in concreto presentarsi come non occasionali o temporanee, ma come stabili e durature arrecando, così, un sicuro incremento del carico urbanistico. In tal caso non può essere giustificata alcuna deroga al regime previsto per le altre opere di cui all’art. 6, co. 1, lett. e) bis dpr 380/2001. L’elemento della non precarietà del manufatto rende allora necessario il pervasivo controllo amministrativo assicurato dall’assoggettamento della struttura alla procedura per il rilascio del permesso di costruire ancorché le opere siano astrattamente considerate come stagionali. Queste, in conclusione, non possono godere di un regime giuridico diverso e privilegiato né sotto l’aspetto del diritto positivo né sotto il profilo del diritto vivente.
Se questa è l’interpretazione preferibile allora è chiaro come il D.L. del 16 luglio 2020 n. 76, aggiungendo l’espressa menzione delle “opere stagionali”, abbia apportato una modifica ed una ripetizione del tutto inutile. Le opere in oggetto, infatti, possono continuare ad essere ricomprese tra le opere “contingenti e temporanee” oggi così come prima della novella.
È d’uopo, pertanto, applicare al caso delle opere stagionali l’interpretazione giurisprudenziale già formatasi prima del luglio 2020 che focalizza l’attenzione sulla idoneità o meno dell’opera a soddisfare esclusivamente esigenze contingenti e sulla sua speculare inidoneità alla fruizione stabile ed indeterminata.
In guisa di ciò la più recente giurisprudenza ha precisato che “non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, come sono le opere “stagionali”, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante”[22]. Si è affermato, più precisamente, che la precarietà dell’opera postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene che non si identifica con la sua stagionalità, la quale non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo.
Orbene, con specifico riferimento alla prassi di reiterare negli anni la collocazione delle opere stagionali, secondo il regime liberale della comunicazione all’autorità comunale, la giurisprudenza ha osservato che la ripetitività dell’apposizione della struttura è in grado di provocare un incremento del carico urbanistico, pur periodicamente limitato ad alcuni mesi dell’anno, che, per ciò solo, fa scattare l’obbligo di ottenere il permesso di costruire[23].
La giurisprudenza si è occupata della fattispecie de qua anche con riferimento all’integrazione dei reati previsti dall’art. 44 T.U. edilizia. La Cassazione ha, in particolar modo, specificato l’aspetto della necessaria temporaneità delle opere rientranti nell’attività edilizia libera. Gli Ermellini hanno così osservato che per “esigenze meramente temporanee” possono intendersi solo quelle del tutto transitorie e di breve durata. Invero, l’aggettivo “temporaneo”, nei dizionari della lingua italiana, è definito come indicativo di qualcosa “che ha una durata limitata nel tempo”, ed è “non duraturo”; l’avverbio “meramente”, poi, rafforza il concetto insito nel lemma, e, quindi, la rilevanza del limite di durata”[24]. In tal senso è stata ritenuta circostanza estremamente significativa per giustificare il sequestro preventivo del manufatto, in forza dell’accusa di aver proceduto in assenza del prescritto permesso di costruire, quella rappresentata dall’installazione di due manufatti per il secondo anno consecutivo.
Con maggior impegno esplicativo la Cassazione ha precisato che “tra le opere “dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee” non possono includersi i manufatti che annualmente vengono risistemati sul territorio”. In guisa di ciò, infatti, si precisa che “per “contingente”, nella lingua italiana, si intende ciò che è “accessorio, eventuale, accidentale, che si verifica casualmente, in una particolare circostanza”. Nè vi sono elementi per ritenere che il linguaggio normativo abbia accolto una diversa accezione del termine; anzi, l’esigenza di attribuire un significato utile all’aggettivo “contingenti” rispetto all’aggettivo “temporanee” cui il primo è affiancato, indice a ritenere che lo stesso è impiegato per sottolineare il carattere della “accidentalità” dell’opera”[25].
Conclusioni
La modifica dell’art. 6, co. 1, lett. e) bis del dpr 380/2001 realizzata ad opera del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11 settembre 2020, n. 120 ha apportato significative novità in relazione al termine massimo di persistenza dell’opera temporanea che è stato protratto a 180 giorni ed in relazione al computo di tale termine che oggi include anche il tempo di allestimento e smontaggio del manufatto. Sotto quest’ultimo aspetto l’intervento legislativo si rivela risolutore dei problemi interpretativi che legittimavano posizioni personalistiche dei tecnici comunali e di quelli di parte che avevano ricondotto la decorrenza del temine ora alla presentazione della comunicazione, ora al compimento dell’opera.
Oggi, pertanto, i ritardi nell’esecuzione del manufatto sono imputati esclusivamente al privato che si avvantaggia della procedura; egli, nel tempo necessario a realizzare l’opera, subisce, perciò, la progressiva riduzione del tempo di godimento della struttura terminata.
Non sortisce alcun effetto, invece, l’introduzione espressa delle “opere stagionali” nella norma in rassegna. Queste, come detto, potevano rientrare già nella definizione di opere contingenti e temporanee. Ancorché le opere siano astrattamente considerate come stagionali è necessario, pertanto, che l’interprete valuti anche la loro effettiva occasionalità e temporaneità e censuri, così, una eventuale reiterazione dell’apposizione delle medesime strutture nel corso degli anni.
Non può, infatti, ammettersi una diversa interpretazione che scongiuri l’applicazione del riferito criterio ermeneutico per le c.d. opere stagionali senza vanificare la ratio legis dell’art. 6, co. 1, lett. e) bis dpr 380/2001. Essa giustifica il regime liberale in favore del privato e della sua libertà di iniziativa economico privata in ragione del fatto che rileva un intervento di edilizia leggera senza incremento del carico urbanistico. Il legislatore, nell’ambito del suo potere discrezionale, ha soppesato gli interessi privatistici e pubblicistici contrapposti al cospetto del principio di ragionevolezza-razionalità ed ha statuito la predominanza dell’interesse privatistico in virtù del basso impatto ambientale ed urbanistico delle opere amovibili e temporanee.
È chiaro che una diversa lettura che voglia accordare un significato innovativo alla menzione espressa delle “opere stagionali” dovrebbe portare ad affermare che queste ultime godano di un regime differente posto che la congiunzione “e” fa ritenere che i requisiti della contingenza e della temporaneità si riferiscano solo a tutte le altre opere che non siano stagionali. Siffatta lettura, però, non può essere condivisa perché significherebbe consentire l’apposizione di manufatti stabili, con incremento del carico urbanistico, senza previo ottenimento del permesso di costruire. Non vi è nessuna valida ragione che possa consentire una simile disciplina giuridica.
La giurisprudenza, da altro canto, è diventata sempre più restrittiva e precisa in punto di occasionalità dell’opera giungendo, come detto, a considerare non occasionale neanche l’apposizione ripetuta per il secondo anno di fila di manufatti che isolatamente considerati, con riferimento al solo arco temporale di una stagione in un singolo anno, sarebbero valutati come precari e soggetti alla mera comunicazione. La ripetitività, così, ha indotto l’interprete a richiedere la necessarietà del permesso di costruire.
Quest’ultimo, infatti, è sempre necessario allorquando via sia la riprova dell’aumento del carico urbanistico insito nella non occasionalità dell’opera.
La concezione più recente e restrittiva sul punto assicura una maggiore tutela del territorio sotto il profilo urbanistico ed ambientale. Con specifico riferimento alla lettura della ripetitività-riapposizione dell’opera viene scongiurato un utilizzo strumentale ed abusivo della comunicazione di cui all’art. 6, co. 1, lett. e) bis T.U. edilizia idoneo a determinare un’effettiva presenza sul territorio di opere che, in forza della loro reiterata apposizione, divengono definitive. Opere, insomma, che non possono essere ricondotte all’edilizia leggera sottoponibile alla mera comunicazione, perché l’incremento del carico urbanistico, quantomeno come sommatoria dei periodi di persistenza del medesimo manufatto in un determinato luogo, è in grado di incidere in maniera costante sul comparto urbanistico e sul suolo di riferimento così da richiedere il necessario rilascio del permesso di costruire.
* Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di valutazione.
[1] Maria Alessandra Sandulli, Testo Unico dell’edilizia, pag. 196, Giuffrè, Milano,2015.
[2] Cfr. Nicola D’angelo, Abusi e reati edilizi, pag. 324, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, 2014.
[3] F. Liguori, La lunga strada storta: dalle autorizzazioni amministrative alla nuova s.c.i.a., in Id, Liberalizzazione, diritto comune, responsabilità. Tre saggi del cambiamento amministrativo, Napoli, 2017, 20.
[4] A. Di Martino, Liberalizzazioni edilizie e potere pubblico: la C.I.L.A., il potere di controllo (che non c’è) e l’orientamento ondivago della giurisprudenza in materia di tutela del terzo, Rivista Giuridica Dell’Edilizia, fasc. 3, 1° giugno 2019, pag. 263. Sulla natura doverosa del potere cfr. anche S. Tuccillo, Contributo allo studio della funzione amministrativa come dovere, Napoli, 2016.
[5] Cons. Stato, Comm. spec., 4 agosto 2016, n. 1784; nel parere, in relazione ai rapporti con la S.C.I.A. si afferma anche che la C.I.L.A. sarebbe “un istituto intermedio tra l’attività edilizia libera e la s.c.i.a.”, ascrivibile, al pari del secondo, nel genus della liberalizzazione delle attività private.
[6] Cfr. A. di Martino, op. cit.
[7] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, Sent. 19 novembre 2015, n. 5278. [8] Cons. Stato, Sez. IV, Sent. 19 novembre 2015, n. 5278.
[9] Si veda, ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 23 maggio 2019, n. 3386; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 16 novembre 2017, n. 2183; T.A.R. Liguria, Genova, Sez. I, 1 dicembre 2016, n. 1177; T.A.R. Campania Sez. II, Salerno, 21 marzo 2019, n. 415.
[10] Cons. Stato, Sez IV, 22. settembre 2014 n. 4764.
[11] T.A.R. Campania, Sez. II, Salerno, 21 marzo 2019, n. 415: “Nel caso di impugnativa di titoli edilizi la « vicinitas » è elemento necessario e sufficiente per radicare la legittimazione e l’interesse del proprietario confinante, mentre solo in rapporto alle scelte di pianificazione urbanistica (si) richiede che i titolari di aree limitrofe, non direttamente incise dalla nuova disciplina, diano riscontri probatori del danno riconducibile al godimento, o al valore di mercato, dell’area su cui insistano gli immobili dai medesimi posseduti, per effetto della nuova normativa”.
[12] F. Gaffuri, Urbanistica e appalti, n. 1/2020, pag. 93, Ipsoa.
[13] Si veda, ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 15 dicembre 2017 n. 5908; T.A.R. Campania, Salerno, Sez. I, 18 maggio 2018 n. 755; T.A.R. Veneto, Venezia, Sez. II, 17 settembre 2019 n. 986.
[14] Per approfondimenti sul sequestro preventivo dell’immobile ultimato con particolare riferimento al carico urbanistico ed alla correlata protrazione delle conseguenze del reato, cfr. P. Tanda, I reati Urbanistico-edilizi, Cedam, Padova, 2010, pagg. 539 ss.
[15] Cass. pen., Sez. III, 11 luglio 2007, n. 27045.
[16] Sergio Deiana, L’impugnativa del diniego di adozione del provvedimento repressivo dell’abuso edilizio. Il caso dei dehor, Lexambiente 24 apr. 2020; https://lexambiente.it/materie/urbanistica/184-dottrina184/14945-urbanistica- l%E2%80%99impugnativa-del-diniego-di-adozione-del-provvedimento-repressivo- dell%E2%80%99abuso-edilizio-il-caso-dei-dehor.html
[17] Cassazione Penale, n. 13633/2017 in Urb app. 3/2017, pag 429.
[18] Tar Campania n. 4286/2019: “Il carattere precario di un’opera edilizia va valutata con riferimento non alle modalità costruttive bensì alla funzione cui essa è destinata, con la conseguenza che non possono essere considerate, quali opere destinate a soddisfare esigenze meramente temporanee, quelle adibite ad un utilizzo perdurante nel tempo, tale per cui l’alterazione del territorio – circostanza decisiva ai fini dell’autorizzazione paesaggistica – non può essere considerata irrilevante. Da ciò consegue che, laddove si realizzi un manufatto destinato ad un uso prolungato nel tempo, anche in assenza di immobilizzazione al suolo o al solaio, la precarietà dello stesso non dipende dai materiali impiegati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall’uso al quale il manufatto è rivolto e va quindi valutata alla luce dell’obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell’opera, senza che rilevino le finalità, ancorché temporanee, date o auspicate dai proprietari”.
[19] Consiglio di Stato n. 5525/2018: “al fine di verificare se una determinata opera abbia carattere precario … occorre verificare la destinazione funzionale e l’interesse finale al cui soddisfacimento essa è destinata. Pertanto, solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza l’interesse finale, possono dirsi di carattere precario … Infatti, la precarietà o non di un’opera edilizia va valutata con riferimento non alle modalità costruttive, bensì alla funzione cui essa è destinata, con la conseguenza che non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante“.
[20] Cons. Stato, n. 4673/2009.
[21] Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 gennaio 2020, n. 316.
[22] Cons. Stato, sez. IV, 7 dicembre 2017, n. 5762, che, in applicazione del suddetto principio, ha ritenuto che i box che ospitano i servizi igienici di uno stabilimento balneare non possono considerarsi precari. Sent. da ultimo richiamata da T.A.R. Sicilia sez. III – Catania, n. 1149/2020.
[23] T.A.R. Sicilia sez. III – Catania, n. 1149/2020.
[24] Cassazione penale sez. III – 18/09/2020, n. 32735. [25] Cassazione penale sez. III – 18/09/2020, n. 32735.