Riferimenti normativi: artt. 1353 ss. c.c., artt. 1453 ss. c.c., art. 1467 c.c.
4 giugno 2024
L’autonomia contrattuale, quale principio che rinviene fondamento costituzionale (art. 41 Cost.), trova la massima espressione nel contratto (art. 1322 c.c.), attribuendo ai contraenti il diritto non solo di costituire un determinato assetto economico, ma anche di determinarne gli aspetti accidentali.
Appare chiaro, già da un immediato approccio semantico, come gli elementi accidentali siano elementi accessori, ossia non essenziali che, cioè, possono o meno essere apposti al negozio giuridico senza incidere sulla validità della fattispecie cui si giustappongono. Sono, infatti, rimessi alla libera determinazione dei contraenti che vogliano subordinare il programma negoziale ad una condizione, ad un termine o ad un modo. Proprio questi ultimi sono gli elementi accidentali generali, rinvenibili nell’ordinamento giuridico.
Il termine consiste in un avvenimento futuro e certo dal quale o fino al quale debbano prodursi gli effetti giuridici del negozio a seconda che si tratti, rispettivamente di termine iniziale o di termine finale. La certezza dell’evento dedotto vale a tracciare una netta demarcazione con la condizione ove, invece, l’evento è incerto. Il termine, inoltre, si distingue in determinato e indeterminato a seconda che sia determinato o meno il momento esatto in cui si verificherà l’avvenimento; così sarà determinato il termine fissato per un giorno preciso (per esempio il 31 dicembre). Se, invece, il termine indica un avvenimento certo nel quando, ma incerto nel se si verificherà (dies incertus an et certus quando), la fattispecie andrà meglio qualificata come condizione (si pensi al termine coincidente con la data del compleanno). Dal carattere della certezza emerge la differenza rispetto alla condizione anche in relazione agli effetti del negozio, dato che solo nella condizione gli effetti del negozio sono posti in dubbio e solo nella condizione, inoltre, gli effetti retroagiscono al momento dell’accordo. E’ bene precisare che, in alcuni casi, il termine non può essere qualificato come elemento accidentale, perché il legislatore gli attribuisce non già un ruolo accidentale, bensì essenziale (per esempio nel contratto di lavoro subordinato).
La tradizione manualistica inserisce tra gli elementi accidentali anche il modo; l’istituto, però, non è disciplinato dal Legislatore in termini generali, ma è previsto nelle specifiche ipotesi del testamento e della donazione. Si rinvia, pertanto, alla disciplina specifica prevista dalle norme che concernono il modo che, in termini generali, può qui essere definito come una limitazione alla liberalità disposta con atto di autonomia negoziale. Si rileva, altresì, che a differenza della condizione il modo non pone in dubbio gli effetti del negozio ed, inoltre, solo il modo produce un obbligo a carico della persona onerata.
Gli elementi accidentali del contratto subordinano l’esecuzione della prestazione a determinati fattori estrinseci, dedotti con specifica clausola accidentale. E’chiaro, quindi, che gli elementi accidentali appagano l’interesse particolarmente atteggiato del contraente ad una prestazione “accessoriata” in nome del principio di autonomia contrattuale. L’improprio aggettivo qualificativo appena utilizzato evoca la più pregnante espressione di “accidentalia negotii” che usavano i romani per definire gli elementi accidentali del negozio giuridico. Con la prefata dizione intendevano distinguere tali elementi dagli “essentialia negotii” che, invece, sono formanti negoziali essenziali la cui mancanza determina la nullità. L’apposizione degli elementi accidentali, tuttavia, pur essendo, come visto, rimessa alla libertà dei contraenti, incide sull’efficacia del negozio: gli effetti di un negozio sottoposto a condizione sospensiva non si producono se la condizione non si sia verificata. Proprio con specifico riferimento alla condizione si rileva, tuttavia, come essa possa anche essere risolutiva; in tale caso, però, gli effetti del negozio si producono da subito e l’avverarsi della condizione ne determinerà la susseguente cessazione. La sorte del negozio in termini effettuali è subordinata, pertanto, al verificarsi o meno dell’evento dedotto in condizione che, però, potrebbe anche non verificarsi mai; la condizione è, infatti, un avvenimento non solo futuro, ma anche incerto (art. 1353 c.c.). Si pensi al caso in cui Tizio si impegni a comprare un terreno al prezzo pattuito, ma a condizione che il Comune rilasci la concessione ad aedificandum che è stata richiesta. In tale ipotesi si ha un negozio sospensivamente condizionato all’avverarsi della condizione, rappresentata dal rilascio del provvedimento amministrativo da parte del Comune. Diversamente si avrà condizione risolutiva nel caso in cui Tizio compri subito il terreno, ma sotto condizione che il contratto cesserà di produrre effetti se il Comune non rilascerà il provvedimento entro un anno. Le parti, quindi, possono liberamente subordinare l’efficacia del negozio nella maniera a loro più congeniale. Il diritto di condizionare il negozio non è, tuttavia, assoluto ovvero sciolto da qualsiasi vincolo o limite. Incontra, infatti, un limite di tipo estrinseco ed un limite di tipo intrinseco. Il primo limite è rinvenibile nel c.d. actus legittimus, cioè, nel negozio che non tollera l’apposizione della condizione; esempio di tale tipo di negozio è il matrimonio o l’accettazione dell’eredità. In questi casi la libertà contrattuale si esplica nella possibilità di stipulare o meno il negozio, ma se le parti si impegnano a concludere lo stesso, poi non possono subordinarne l’efficacia ad una determinata condizione ed allora, o esso produrrà effetti ab origine o non li produrrà mai (se non viene ad esistenza). In queste ipotesi, pertanto, si ha un limite di tipo estrinseco ed oggettivo al diritto di apporre la condizione, perché il Legislatore considera tali negozi ontologicamente incompatibili con l’effetto condizionante. In tutti gli altri casi in cui il Legislatore non disponga, espressamente, in senso contrario, invece, la condizione è ammessa, in virtù della norma generale di cui all’art. 1353 c.c. Se questo è vero, è vero, però, anche, che la libertà di condizionare il negozio incontra il secondo tipo di limite, poc’anzi definito intrinseco, evincibile dalle disposizione normative susseguenti all’art. 1353 c.c. Gli art. 1354 c.c. e 1355 c.c., infatti, limitano la portata estensiva del diritto di sottoporre a condizione il negozio in ragione di superiori esigenze pubblicistiche o di istanze di tutela del contraente che subisca la condizione meramente potestativa: non si può concepire seriamente un vincolo che dipenda dall’arbitrio dell’obbligato. In tali casi non soltanto è viziata la clausola che contenga simili condizioni, ma è viziato l’intero negozio cui essa si giustapponga (vitiatur et vitiat). E’ ammissibile, invece, la condizione che non sia meramente potestativa, ma che sia potestativa vera o propria o semplice che consista, cioè, in un comportamento dipendente sì dalla volontà dell’obbligato, ma che non sia il frutto dell’arbitrio personale. La condizione di tal fatto è, insomma, meritevole di tutela, perché dipende da valutazioni personali che possono entrare nel bilanciamento di interessi sottesi al programma negoziale, come potrebbe avvenire nel caso in cui si subordini l’assunzione di un soggetto nel personale di un determinato stabilimento a condizione che l’obbligato decida di costruire il medesimo. Tale tipo di condizione si distingue dalla condizione che non dipende dalla volontà del privato, bensì da fattori esterni o da terzi e, perciò, detta casuale (per esempio: se ci sarà un terremoto, se la nave arriverà) e dalla condizione detta mista, perché dipende in parte dal caso, in parte dalla volontà di una delle parti (esempio: se sposerò quella donna).
Si è detto che la condizione valorizza l’autonomia negoziale; l’apposizione della condizione dipende, infatti, dalla volontà delle parti. Per questo motivo occorre tenere distinta la fattispecie in esame (c.d. condicio facti) dalla c.d. condicio juris. Quest’ultima, infatti, prescinde dalla volontà delle parti ed ha fonte, esclusivamente, in una norma giuridica che la prevede per ragioni pubblicistiche e specifiche che variano da caso a caso. Si pensi al previgente art. 17 c.c. che prevedeva l’autorizzazione governativa, quale condizione per l’acquisto di un immobile, da parte di una persona giuridica; all’approvazione del contratto da parte delle Autorità di controllo, rispetto ai contratti conclusi dalle PP.AA.: finché l’autorizzazione non sopraggiunga il contratto non ha efficacia o, ancora, alla venuta ad esistenza del concepito nella donazione a nascituri e nelle disposizioni testamentarie a favore dei concepiti. La condicio juris, pertanto, non è una condizione in senso proprio; nella sua apposizione non gioca alcun rilievo, infatti, la volontà dei contraenti che, invece, è la sola fonte della condizione propriamente detta. La volontà, quale espressione di autonomia privata, dunque, è sempre rinvenibile nell’accordo contenente la condizione apposta dai contraenti, anche quando questa non sia evincibile dal contenuto letterale del contratto. In tale ultimo caso la condizione è tacita, ma la presenza dell’elemento accidentale è, comunque, evincibile dall’ermeneutica contrattuale. La condizione è, infatti, tacita quando le parti condizionano l’efficacia del contratto senza dare rilevanza giuridica esterna alla clausola accidentale. E’, tuttavia, controverso l’inquadramento dogmatico di siffatta condizione e ne è, perfino, messa in dubbio l’ontologica ammissibilità. Se si considera, infatti, che la clausola accidentale è il veicolo per dare rilevanza giuridica esterna ai motivi delle parti ed al perché dell’evento condizionante, onde sottoporlo al vaglio della parte cui si oppone e del giudice, si deduce che essa può vincolare ed essere ritenuta meritevole di tutela solo se esplicitata. Secondo tale interpretazione, dunque, il problema della condizione tacita si pone su un piano di esistenza stessa della medesima, confutando la dottrina sostenuta da coloro che, invece, la ritengono ammissibile. Questi ultimi, infatti, risolvono il problema della condizione tacita, spostando l’attenzione dal profilo dell’ammissibilità a quello della prova dell’esistenza. La condizione tacita è, cioè, ammissibile ed il suo rilievo nel contratto pone solo un problema probatorio.
La fattispecie, secondo un certo orientamento, sarebbe equiparabile alla c.d. presupposizione, definita come “clausola risolutiva tacita, implicita nel complesso di circostanze oggettive interessante la formazione e l’esecuzione del negozio giuridico” (Girino) o, ancora, come “clausola di risoluzione portata a manifestazione esteriore, anziché dalla dichiarazione delle parti, dalle circostanze oggettive in cui questa stessa dichiarazione è avvenuta” (Barbero). Questa visione si pone in contrasto con la dottrina che distingue la condizione tacita dalla condizione implicita e dalla presupposizione che, secondo una teoria pregressa, veniva considerata non già come condizione implicita, bensì come condizione non sviluppata. La teoria della presupposizione come condizione non sviluppata comporterebbe, invero, l’inammissibilità dell’istituto stante l’irrilevanza dei motivi del contratto ed, infatti, “se non sviluppata significa che la modalità non si è fatta strada né esplicitamente né implicitamente, nel negozio, e quindi non risulta dal tenore della dichiarazione qual è riconoscibile dagli interessati, la presupposizione è irrilevante come un semplice motivo contrattuale” (Santoro Passarelli). Non è possibile, tuttavia, ravvisare una perfetta coincidenza, anche strutturale, tra presupposizione e condizione (comunque venga definita: tacita, implicita o inespressa). Se è vero, infatti, che entrambe gli istituti subordinano l’efficacia del negozio concluso ad un determinato evento è anche vero che la condizione, nel suo classico modo di operare, a differenza della presupposizione, rinviene il fondamento in una clausola espressa accessoria al contratto. La condizione, inoltre, è un avvenimento futuro ed obiettivamente incerto, diversamente dalla presupposizione che, invece, riguarda circostanze (presenti, passate o future) considerate come certe dalle parti al momento della conclusione del contratto. L’assimilazione della presupposizione alla condizione risolutiva pone anche problemi di tutela dei terzi; l’avveramento della condizione risolutiva ha efficacia sia tra le parti che nei confronti dei terzi. L’art. 1357 c.c., infatti, subordina gli effetti degli atti compiuti in pendenza della condizione all’avveramento della medesima senza che, però, si abbia alcuna lesione dell’affidamento ingenerato nei terzi, dal momento che il contratto risolutivamente condizionato produce ab origine solo effetti precari. Se si considera, inoltre, che l’art. 2659 ultimo comma c.c. impone di menzionare la condizione nella nota di trascrizione, appare chiaro che non si può avere alcuna lesione dell’affidamento legittimo in capo ai terzi in quanto essi sono in grado di conoscere la situazione di pendenza della condizione. Saranno, invece, ignari di ciò nel caso di condizione inespressa e non potranno, pertanto, assumere consapevolmente il rischio di caducazione ex tunc degli effetti del contratto stipulato; risulterà, così, lesa la certezza dei traffici giuridici ed il legittimo affidamento dei terzi. La condizione, inoltre, non prevede alcun meccanismo equitativo per modificare e mantenere il rapporto contrattuale insorto tra i contraenti; si avrà, così, una tutela recessiva anche avuto riguardo alla posizione delle parti che, invece, risulterebbero meglio tutelate da una rivisitazione del sinalagma contrattuale alla luce dei principi di buona fede ed equità.
La difficoltà di inquadrare la presupposizione, e la necessità di ricondurla solo a strade note come l’errore o la risoluzione per eccessiva onerosità, nasce dai timori sempre presenti negli interpreti che si trovano di fronte un istituto di creazione dottrinale, sol che si pensi al rischio del venir meno della sicurezza degli affari; al possibile vulnus al principio della certezza del diritto; al pericolo dell’arbitrio insito nell’indagine psicologica necessaria per poter individuare la presupposizione; al venir meno della tutela dell’affidamento.
Al di là dell’esatto inquadramento dogmatico della presupposizione e della prodigiosa opera di classificazione dell’istituto effettuata dai più autorevoli autori, tuttavia, la presupposizione è ritenuta ammissibile e compatibile con i principi ordinamentali. L’idea di una clausola non espressa nel contratto è, del resto, tenuta presente anche dal Legislatore nell’art. 1374 c.c.ove si dice che le parti sono obbligate non solo a quanto espressamente pattuito nel contratto, ma anche “a tutte le conseguenze che derivano secondo legge o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità”. Si può ritenere, così, che la presupposizione entri nel programma contrattuale al ricorrere di circostanze di fatto che testimonino la rilevanza decisiva, assunta da un determinato presupposto, ai fini della conclusione del contratto; si potrà ravvisare, allora, l’istituto in esame nel caso della locazione di un balcone che affaccia su una pubblica via per il giorno specifico in cui transiterà un corteo o si terrà una determinata manifestazione. L’evento non menzionato nel contratto, in questo caso, assume il rango del presupposto se le circostanze della contrattazione (per esempio il prezzo molto elevato e per quel determinato giorno) inducono a ritenere che i contraenti non avrebbero concluso l’accordo se avessero saputo che quell’evento non si sarebbe verificato. In quest’ottica, pertanto, anche la giurisprudenza di legittimità si preoccupa di tutelare la presupposizione e di fornirne un’adeguata definizione, in assenza di espressa codificazione: “In tema di rapporti giuridici sorti da contratto, la cosiddetta “presupposizione” deve intendersi come figura giuridica che si avvicina, da un lato, ad una particolare forma di “condizione”, da considerarsi implicita e, comunque, certamente non espressa nel contenuto del contratto e, dall’altro, alla stessa “causa” del contratto, intendendosi per causa la funzione tipica e concreta che il contratto è destinato a realizzare; il suo rilievo resta dunque affidato all’interpretazione della volontà contrattuale delle parti, da compiersi in relazione ai termini effettivi del negozio giuridico dalle medesime stipulato. Deve pertanto ritenersi configurabile la presupposizione tutte le volte in cui, dal contenuto del contratto, si evinca che una situazione di fatto, considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, venga successivamente mutata dal sopravvenire di circostanze non imputabili alle parti stesse, in modo tale che l’assetto che costoro hanno dato ai loro rispettivi interessi venga a trovarsi a poggiare su una base diversa da quella in forza della quale era stata convenuta l’operazione negoziale, così da comportare la risoluzione del contratto stesso ai sensi dell’art. 1467 c.c.” (Cass. 6631/2006). In questo caso la giurisprudenza ha tutelato la posizione del soggetto, pregiudicato dal venir meno della presupposizione, accogliendo l’interpretazione ricorrente che, in tal caso, accorda la risoluzione per eccessiva onerosità. Tale approdo, tuttavia, non è unanimemente condiviso e la ricostruzione dogmatica della presupposizione continua a dividere gli interpreti fin dalla nascita dell’istituto resa possibile da B. Windscheid. L’insigne giurista di Dusseldorf intese la presupposizione alla stregua della condizione non svolta e la incluse nel gruppo delle Selbstbeschrankungen (autolimitazioni) degli effetti dei negozi giuridici; il rimedio è dato al soggetto pregiudicato sulla base di un solo decisivo argomento: l’efficacia negoziale esiste in quanto voluta. In difetto di volontà, non può concepirsi la sussistenza dell’effetto giuridico; non è sufficiente a produrre l’effetto giuridico la sola manifestazione di volontà non riflettente l’effettivo volere del soggetto.
In dottrina, nella vigenza del Codice civile del 1865, parte della dottrina sostenne che il principio della presupposizione era accolto in norme sparse, giungendosi in tal modo a configurare ipotesi di presupposizione tipica. Fu, pertanto, possibile rinvenire ipotesi di presupposizione tipica nell’art. 888 c.c. del 1865 (attuale art. 687 c.c.) e nell’art. 1083 c.c. del 1865 (ora art. 803 c.c.) in caso di revocazione del testamento e della donazione per sopravvenienza dei figli: si affermava (Andreoli) che tali negozi erano resi inefficaci ex lege, poiché stipulati sul presupposto che il testatore o il donante non avessero in seguito figli e, successivamente, il presupposto era mancato. Oggi, invece, una certa dottrina e la prefata giurisprudenza di legittimità, rinvengono il fondamento normativo della presupposizione nell’art. 1467 c.c. Come detto, però, tale ricostruzione è tutt’altro che pacifica ed, anzi, è ritenuta inammissibile da parte della dottrina sulla scorta della ratio dell’art. 1467 c.c. che non andrebbe ricercata né nella clausola rebus sic stantibus, che sarebbe troppo vaga, né nel concetto di presupposizione, ma nel difetto funzionale della causa. Parte della dottrina ha, quindi, ricondotto la presupposizione nell’ambito del motivo individuale, con conseguente irrilevanza della medesima, salvo il tentativo di relegare la presupposizione ad errore sul motivo quando la sua forza determinante si è resa manifesta alla controparte. La presupposizione, inoltre, troverebbe fondamento giuridico nel principio di buona fede (artt. 1175, 1337, 1366, 1375 c.c.) con specifico riferimento alle norme che regolano la formazione, l’interpretazione e l’esecuzione leale e corretta dei contratti.
Se è vero che la presupposizione è da intendersi come clausola contenente una condizione risolutiva tacita, emergente da circostanze oggettive, è anche vero che essa trova fondamento nel principio di buona fede nella misura in cui le parti contraenti debbano osservare, nella stipulazione del negozio, un certo grado di diligenza onde evitare soluzioni precipitose; debbano informare il loro comportamento a lealtà e correttezza anche durante la fase esecutiva, posto che entrambe le parti pongono in essere un determinato negozio sulla base di un medesimo presupposto, dando vita ad una clausola risolutiva tacita. Se, pertanto, il presupposto diventa contenuto negoziale, entrambe le parti devono riconoscerne la rilevanza e sarà considerato contrario a buona fede pretendere l’adempimento del contratto in assenza del presupposto. L’interprete, infine, potrà rilevare la presenza della presupposizione in virtù dell’interpretazione secondo buona fede. La presupposizione, d’altronde, trova nell’equità e nella giustizia sostanziale l’originaria istanza fondante; se, cioè, il riconoscimento del principio della forza di legge contrattuale fa sì che la promessa obblighi al comportamento dedotto in contratto, la presupposizione è stata storicamente elaborata ed invocata per liberare dal vincolo il debitore, nei casi in cui l’applicazione di tali principi si mostrava più gravemente confliggente con il senso di giustizia.
Sarà opportuno, in ogni caso, porre un argine al rilievo della presupposizione in nome di un’istanza di certezza giuridica e di tutela dell’affidamento della controparte onde essa rileverà, secondo la giurisprudenza, nel caso in cui il presupposto sia certo, ovvero considerato come sicuro dalle parti, come un elemento della cui esistenza non si abbia ragione di dubitare; comune ossia condiviso dai contraenti, nel senso che questi lo abbiano considerato entrambi come elemento necessario rispetto al contratto concluso; obiettivo: indipendente dal comportamento delle parti.
La condivisione dell’elemento presupposto da tutti i contraenti rappresenta un’ulteriore similitudine con la condizione; quest’ultima, tuttavia, è di norma pattuita in funzione dell’interesse di tutte le parti contrattuali, mentre il rilievo della presupposizione, e la relativa eccezione, sono posti nell’interesse della parte pregiudicata dal rapporto contrattuale, divenuto sperequato. Sotto tale profilo, cioè dell’operatività dell’istituto nell’esclusivo interesse di una sola parte, la presupposizione può essere assimilata alla condizione unilaterale.
La condizione unilaterale, infatti, in deroga alla regola generale in materia di condizione, è posta a favore di una sola delle parti contraenti. La fattispecie è ritenuta ammissibile dalla giurisprudenza in virtù della tutela massima accordata all’autonomia privata. L’unilateralità deve, comunque, risultare espressamente o, per lo meno, da elementi immediatamente percepibili. Solo una parte, pertanto, è interessata alla verificazione dell’evento; si pensi all’ipotesi di acquisto di un immobile subordinato sospensivamente al rilascio del mutuo. Il soggetto a favore del quale è posta la condizione può decidere di rinunziarvi o decidere, nell’esempio citato, di acquistare il bene senza ricorrere al finanziamento. In tal modo la parte che si avvale della condizione è tutelata innanzi ad un determinato evento futuro ed, al tempo stesso, può procedere ad una serena e successiva ricognizione dell’affare, senza dovere subire gli effetti della precedente valutazione. Detto soggetto vanta, quindi, un diritto potestativo nei confronti degli altri contraenti, i quali, si trovano in una posizione di soggezione innanzi alla manifestazione di volontà con cui il primo dichiara di recuperare gli effetti del contratto condizionato, rimasto inattuato o di rinunziarvi. Il verificarsi dell’evento dedotto in condizione non determina, cioè, l’automatica efficacia del contratto che è, come detto, subordinata alla manifestazione di volontà di un solo contraente. Il meccanismo operativo sarebbe assimilabile a quello del patto di opzione o, meglio, del patto di opzione sottoposto a condizione. Secondo un certo orientamento vi sarebbero due possibili ricostruzioni dell’istituto: la prima che riconduce la fattispecie in esame alla normale ipotesi del contratto condizionato in genere, di cui sussisterebbero tutti i requisiti strutturali e funzionali e la seconda che richiama il negozio complesso, costituito da due distinte, ancorché collegate, pattuizioni, consistenti in un contratto condizionale e in un patto di opzione, avente ad oggetto un futuro e distinto contratto identico al primo ma non condizionato.
La manifestazione di volontà di avvalersi della condizione sospensiva equivale ad un’accettazione, capace di determinare la formazione dell’accordo e, perciò, da sottoporre agli oneri di forma previsti per la validità del contratto a pena di nullità. La dichiarazione del contraente che, invece, decida di non avvalersi della condizione, sarà diretta ad impedire la conclusione dell’accordo definitivo e non avrà, quindi, alcun valore dispositivo. Non sarà richiesta, pertanto, alcuna forma particolare; nel caso di opzione, infatti, il promissario che non eserciti il diritto potrà rimanere inerte e rilevare le sue intenzioni anche con il silenzio, equivalente ad una manifestazione tacita, o anche per fatti concludenti. Se l’assimilazione della condizione all’opzione appare plausibile con riferimento alla condizione unilaterale sospensiva, non altrettanto potrà dirsi per la condizione risolutiva. Il contraente interessato, in questo caso, ha facoltà di profittare o meno dell’evento condizionante; egli, in sostanza, potrà scegliere se restare vincolato o se sottrarsi al vincolo in conseguenza dell’avveramento della condizione. La dichiarazione di non avvalersi della condizione risolutiva avrebbe l’effetto di ricostruire il vincolo negoziale, venuto meno per il verificarsi dell’evento condizionante. In tal senso la dichiarazione può essere considerata come modificativa di una situazione giuridica e, quindi, sottoposta agli oneri formali del contratto che si intende ripristinare e, precisamente, alla stessa forma del contratto in precedenza concluso. Si dovrà concludere, però, diversamente, qualora si ritenga che la dichiarazione di non avvalersi dell’evento risolutore sia sostanzialmente una rinuncia ad avvalersi del diritto di recesso; in tal caso non dovrebbe essere necessaria la sottoposizione a particolari oneri di forma. Se, però, si considera, altresì, che la volontà di recedere è, secondo una corrente visione dottrinaria, espressa in una dichiarazione che integra un atto di secondo grado, allora è chiaro che la dichiarazione dovrà recepire gli stessi oneri formali del contratto a cui si riferisce. Per il principio di identità della forma dell’atto positivo e del suo contrario, così, anche la eventuale dichiarazione di rinuncia dovrebbe essere sottoposta alle medesime regole.
La condizione unilaterale, pertanto, presenta aspetti peculiari che la diversificano in parte dalla fattispecie tipica della condizione. L’incidenza sugli effetti dell’atto è, infatti, diversa da quella svolta in generale dalla classica condizione, tanto è vero che si è posto in dottrina il seguente quesito: “la condizione è uno schema unitario o plurimo?” (M. Costanza). La stessa dottrina afferma che, per rispondere al quesito, occorre valutare se il modello condizionale, tracciato dal Codice, sia idoneo a risolvere anche interessi diversi o ulteriori rispetto alla definizione automatica degli effetti del contratto. Tale orientamento considera, inoltre, che “riportando il meccanismo della condizione unilaterale alla fattispecie dell’opzione o del recesso si viene a creare una sorta di concorrenza tra gli effetti propri della condizione e quelli degli istituti sopra menzionati. Poiché le norme che disciplinano tali effetti non sono coincidenti tra loro, si deve verificare se ci sia fra di esse compatibilità oppure se alle une o alle altre spetti un ruolo prevalente”. Si risolve il quesito affermando che, in realtà, con l’adozione della condizione unilaterale si verificano situazioni speculari a quelle del patto di opzione, nel caso di condizione sospensiva, e del recesso ove la condizione sia risolutiva. La normativa di riferimento sarà, pertanto, quella che regola questi istituti e non già quella che disciplina la condizione. Il riferimento a norme diverse dall’art. 1353 c.c.,del resto, non comporta una totale differenziazione degli effetti della condizione propria e di quelli della condizione unilaterale. Si pensi, ad esempio, alla retroattività degli effetti, che nel patto di opzione retroagiscono fino al momento della conclusione dell’accordo, proprio come avviene in materia di condizione propria.
Conseguenze divergenti sono, invece, rinvenibili in relazione alla tutela dei terzi, dal momento che, nel caso dell’opzione e del recesso, l’opponibilità è limitata alle sole situazioni in cui è possibile trascrivere o il patto o le domande giudiziali eventualmente connesse con l’esercizio della facoltà di recesso. La condizione, invece, in quanto assistita da efficacia reale, è sempre opponibile ai terzi, come opponibili ai terzi sono le sue vicende.
La tutela dell’autonomia privata, pertanto, deve trovare massima espansione anche nell’uso di elementi accidentali come la condizione, salvo il rispetto dei limiti imposti dalle norme generali e speciali dell’Ordinamento. In materia di condizione, come innanzi detto, un limite è rappresentato dal divieto della condizione meramente potestativa; questo limite ha comportato il problema dell’ammissibilità della c.d. condizione di adempimento. Con essa assume rilievo condizionante del contratto l’adempimento di una parte, ed allora, un primo problema di ammissibilità è determinato dal raffronto col divieto di condizione meramente potestativa dato che sarà il debitore ad incidere sugli effetti del contratto, scegliendo o meno di adempiere. Ciò sembrerebbe in contrasto anche con la c.d. causalità della condizione che comporta che i contraenti non possano incidere sulla vicenda condizionante. Apparirebbe, inoltre, in contraddizione con il requisito dell’incertezza che implica la neutralità delle parti nel determinarsi o meno dell’evento. Contro la teoria dell’ammissibilità della condizione di adempimento si è dedotta, infine, l’incompatibilità fra l’accidentalità della clausola condizionale e l’essenzialità della prestazione da adempiere; richiamando, infatti, la suesposta distinzione tra “accidentalia negotii” ed “essentialia negotii”, si nota come nessun contratto potrebbe sorgere, validamente, se carente di un suo elemento essenziale.
La giurisprudenza e la dottrina prevalenti ritengono, tuttavia, ammissibile la condizione di adempimento, osservando che il condizionamento assolve ad uno scopo meritevole di tutela ex art. 1322 c.c., difatti il creditore riceve il vantaggio di liberarsi automaticamente dal proprio obbligo ove l’altra parte non adempie la sua prestazione, ma il costo di questa operazione è, invece, la minore probabilità che la condizione si verifichi ove il debitore sappia di non essere obbligato se non potestativamente. Secondo tale interpretazione questa condizione assolverebbe ad una funzione di garanzia come accade, ad esempio, nel caso in cui il debitore subordini la consegna della merce al pagamento del prezzo o viceversa. In tal senso la condizione può presentare similitudini con la vendita con riserva di proprietà con la differenza che quest’ultima, però, non rappresenta una vendita condizionata, ma pone, invece, un differimento del momento traslativo.
L’adempimento in sé è stato considerato, inoltre, equivalente ad un fatto e, quindi, non incompatibile con il dettato dell’art. 1353 c.c. In merito alla natura essenziale della prestazione, invece, “l’obiezione è superabile sia attraverso la distinzione tra prestazione e adempimento, sia rilevando che non tutte le prestazioni contrattuali costituiscono elementi essenziali dell’atto. Inoltre, poiché la condizione può essere sia sospensiva che risolutiva, è necessario sottolineare che l’ammissibilità di clausole condizionali di inadempimento risolutive trova conferma nelle stesse disposizioni del Codice che collegano all’inadempimento lo scioglimento del rapporto contrattuale” (M. Costanza). Secondo questa dottrina la condizione risolutiva di adempimento (o, meglio, di inadempimento) sarebbe senz’altro ammissibile ed il problema centrale sarebbe l’esatta qualificazione della fattispecie; cioè, occorrerebbe verificare se tale clausola sia qualificabile come condizionale vera e propria o integri, piuttosto, un’altra fattispecie, con conseguente applicabilità di disposizioni diverse dagli artt. 1353 ss. c.c. Nello specifico sarebbero invocabili la clausola risolutiva espressa ed il recesso unilaterale; nel primo caso la differenza riguarderebbe gli effetti verso i terzi, dal momento che nella condizione risolutiva, a differenza che nella clausola risolutiva, vige il regime di pubblicità che rende rilevanti gli effetti verso i terzi. L’opzione per la condizione risolutiva può essere determinata dall’interesse delle parti di rendere conoscibili, anche nei confronti dei terzi, le vicende contrattuali e, nello specifico, lo scioglimento. L’ordinamento può tutelare simile istanza se si pensa che gli effetti dell’inadempimento del contratto siano disponibili dalle parti. Non si può che pensare in tal senso se si ha riguardo all’aspetto della scelta del creditore di reagire all’inadempimento della controparte. Si pensi, così, alla libertà di reagire all’inadempimento ed a determinarne le conseguenze con specifico riferimento alla clausola penale o alla risoluzione di diritto. La disponibilità degli effetti, però, riguarda solo i rapporti tra le parti, come si evince anche dall’art. 1458 c.c.Nella condizione, invece, gli effetti retroagiscono fino al momento della stipulazione, ed allora, la condizione risolutiva di adempimento attribuirebbe alle parti la facoltà di coinvolgere i terzi nelle vicende del rapporto contrattuale, con profili di possibile contrasto con l’art. 1372 c.c.che sancisce il principio di relatività degli effetti del contratto. In tal senso la clausola che contenesse la condizione risolutiva di inadempimento “non sarebbe necessariamente invalida ma dovrebbe essere considerata equivalente al patto previsto e disciplinato dall’art. 1456 c.c. almeno in relazione agli effetti nei riguardi dei terzi, in quanto situazioni non disponibili dalle parti contrattuali” (M. Costanza). Le stesse considerazioni possono essere fatte per il caso in cui la clausola condizionale di inadempimento si atteggi come una facoltà di recesso, attribuita al contraente non inadempiente per ottenere lo scioglimento del rapporto contrattuale. Anche fra recesso e condizione risolutiva, infatti, la differenza si incentra sugli effetti dello scioglimento del rapporto nei confronti dei terzi, ma, precisamente, sulla rilevanza esterna dello scioglimento del rapporto, dato che, con riferimento al profilo della retroattività, tipico del meccanismo condizionale, l’avveramento dell’evento dedotto, nei contratti ad esecuzione continuata, non travolge le prestazioni già eseguite. Il contraente al quale è stato trasferito il diritto, inoltre, non è privato degli incrementi conseguiti dal bene nel periodo intercorso fra la stipulazione e l’avveramento dell’evento condizionante.